domenica

Il mio mare





Questa è la storia che è cominciata il primo giorno del resto della mia vita. E non te la racconterò. 

L’ultimo giorno che ti ho visto partire dal porto di Cesenatico ho deciso che sarebbe stata l’ultima volta che vi avrei sostato. Quel giorno, come ad ogni partenza, te ne stavi a prua e mai una volta ti sei voltato a guardarmi. Con gli occhi dello stesso colore del profondo del mare, eri già pronto alla tua prossima avventura.
Quel giorno sono diventata una sirena. 

Arrivata a casa ho percorso di gran lena la scala che porta al mio appartamento, al secondo piano. Ho chiamato Mario ed abbiamo concordato che l’indomani sarebbe stato lì presto per cominciare i lavori. Mario è uno di quei signori tutto fare che bisogna sempre conoscere ed avere amici, in particolare se si è una donna sola che nemmeno una lampadina le riesce di cambiare e, soprattutto, se si deve costruire una barca. 

Tempo un mese e la mia barca era pronta. E con lei anche il mare.
Avevo fatto issare una vela in mezzo al soggiorno, che prendesse il vento della finestra che dava ad est del palazzo e restasse sempre gonfia. Dal salotto passavo nella camera da letto che era proprio accanto a quello che un tempo era un ampio studio e alla camera che sovente davo in affitto ad estranei, provenienti da tutte le parti del mondo. Nella parete contigua a queste due stanze avevo fatto ricavare un’insenatura tutta di legno, come fosse davvero la cuccetta a poppa, che frange il mare. Così che dormendoci io potessi sentire l’acqua gorgogliare, così che mi cullasse in un sonno profondo e pieno.
Sia la mia stanza che il salotto erano pieni di oblò, finestre interne che affacciavano sulla stanza degli ospiti e sullo studio, che ora erano un ambiente unico. Il mio mare personale.
Dalla mia stanza partiva una stretta scala a chiocciola, con cui potevo accedere alla mansarda. È dalla mansarda che ci si poteva tuffare in acqua.
Nuotavano liberamente varie specie di pesci. Rigorosamente commestibili. Orate, Acciughe, Cefali, Dentici, Cernie, Occhiate, Ombrine. 

Ed è stato così che ho cominciato a dare lezioni ai pesci su come non abboccare. Non che io sia di chi sa quale culto riguardante l’alimentazione, siano essi vegani o vegetariani. Anzi, io il pesce lo amo anche come cibo di cui nutrirmi e leccarmi i baffi. Ma è scientificamente provato che i piccoli pesci che vengono pescati per il solo hobby della pesca, rischino di restare per sempre traumatizzati da questo gioco del “ti prendo e ti ributto via”. Mario mi raccontava di avere avvistato Acciughe che nuotavano in vortici di spirale impauriti, Dentici con labbra tagliuzzate dagli ami che li avevano pescati, un giorno ha addirittura visto un’Occhiata particolarmente accentuata, chiaro sintomo di terrore. 

Così io mi tuffavo con loro ogni giorno verso l’imbrunire. Ero la loro sirena, nel mio mare.
Ed una volta che li sentivo pronti li consegnavo a Mario, che mi dava una mano a smistarli nell’acqua d’origine. 

Al lavoro mi sembrava sempre di sguazzare nel mio mare. Era piuttosto complicato ritrovarsi seduta a rispondere ad un telefono rovente, quando in testa si aveva solo l’andarivieni delle onde. Tuttavia il sacro silenzio che mi avrebbe aspettato una volta uscita di lì, era una buona motivazione per continuare a recitare la parte della cordiale e piacevole. 

So che deve essere difficile per te pensare che ci sia un mondo dietro quella ragazza sul molo. Quel bacio d’addio ripetuto così tante volte. Se avessi pensato che questo poteva interessarti minimamente, te lo avrei raccontato. 
Sono passate poche ore da quando ti ho incontrato in libreria con la tua ragazza, dalle scarpette rosse. E’ evidente che voi siete felici e solo quando non lo siete ti piace rifugiarti nelle storie dei marinai e dei pirati. Che son solo storie. 


Adesso mi sembri incredibilmente lontano, come niente di più che un pescatore su una barcarola. 
Visto da in mezzo al mare. 
Perché a differenza delle tue storie, io sono davvero una sirena.

mercoledì

L'appuntamento



L’una e cinquantasette.
Come ogni mercoledì notte, fra meno di tre minuti, Riccardo arriverà sotto casa di Adriana.
Gli incontri all’alba. Adriana così li chiama.

Adriana è una pilota di mongolfiere. Per una vita è stata in mezzo ai numeri, ma poi in essi è naufragata. Stufa del rigore dell’amministrazione, ha deciso di cominciare a volare.
I suoi passeggeri sono molteplici. Talvolta sposi, che ancora credono nell’amore senza fine. Altre volte ragazze, che sognano ad occhi socchiusi.
La sua mongolfiera, dalle strisce bianche e rosse, è attraccata sul tetto del palazzo, nonostante il geometra del primo piano continui a lamentarsi della struttura, che a suo dire infrange le norme di sicurezza.
Nei suoi voli quotidiani raccoglie i batuffoli di polline che la circondano. Il suo passato di precisione resta in lei in un bagaglio di abitudini e rituali, come quello di serbare queste nuvole di battiti di cuore in un grosso vaso, appeso come un lampadario al soffitto.
E’ grazie questa liturgia che, da ormai un anno, Adriana è riuscita a tenere a bada la sua tendenza alla fissazione e ad accettare questo rapporto a puntate, di un barbaro di passaggio nella sua vita.
In una fiction senza fine Adriana e Riccardo si incontrano dalle due di notte fino all’alba, quando Riccardo transita via, sicuro di non essersi fatto prendere, di non aver lasciato che uno sguardo e una manciata di storie.

Ieri notte ho incontrato un piccolo gruppo di pescatori cinesi sulla riva del Fiume Lambro – le racconta.
Inorridita osserva Adriana - Ma quel fiume è uno dei sette fiumi più inquinati d’Italia! Saranno in attesa dei pesci dello Yangtze?
Ho fatto un sacco di scatti interessanti – continua Riccardo
Non mi anticipare, aspetterò il prossimo editoriale di “Storie di vita notturna” su Dreamers. – lo blocca lei - Il prossimo è sui freddi colossi ghiacciati dell’Expò, vero?
- Si. Sapessi le storie che mi hanno raccontato i barboni che li occupano, neanche fossero artisti borghesi.

Adriana appende con mollette colorate tutti i suoi articoli al filo teso sopra il letto, come per afferrare un pezzettino di Riccardo nei racconti sui venditori di rose e chincaglierie varie o le sue critiche agli aridi hipsters incontrati nei locali giusti. Aggirarsi di notte con la sua fidata Canon è l’unica relazione stabile che ammette a se stesso.

Ma in quella notte di aprile, Adriana, alzandosi dal letto per andare alla finestra, inciampa goffamente e con un tonfo piomba a terra. A fianco a lei cade e si rompe in mille frantumi il vaso dei suoi riti. Con esso cominciano a volteggiare le nuvole dei sogni.
Adriana esce sul balcone, sale sulla sua mongolfiera e molla gli ormeggi.
E mentre sale, perdendosi nella notte, osserva un puntino farsi sempre più lontano. E’ il barbaro che, spegnendo con la punta della scarpa la sigaretta, come ogni mercoledì notte è pronto per quell’appuntamento.

Come il vaso, la magia è rotta.
I sentimenti stanno arrivando,
ma chissà,
qualcuno potrebbe dire – anche - che è appena cominciata.


martedì

Danza la notte

Fumatto

Una lanterna sul comodino ad illuminare i mondi immaginari che, avvolta nel fiorato piumone, avrebbe attraversato.
Nella nebbia dell’incoscienza, una lontana fisarmonica la richiamava a sé.
Da lì, si aprì un chiarore.

Rituali passi nell’aia che fu di tanti ricordi di bambina, in quella terra che altro non è che casa. Anna, oramai una donna, gracile figura con pelle di porcellana e lunghi capelli che le scendono fino a coprire i timidi seni, in lei l’orma di quella terra, un’origine, fatta di odori, rituali, parole che continuano a segnarla.
Gira l’angolo della grande casa padronale, per quel viottolo che dietro si spinge fino ai peschi del contadino contiguo. La strada è terra sconnessa, non lavorata, solcata dal passaggio di un trattore che oramai da due anni ha smesso di lavorare.
Le strade di campagna sono così. Si lasciano percorrere silenziose, custodi dei pensieri. Il tempo scorre, lento e inconsapevole, la natura cambia, col passare delle stagioni.
Prosegue il suo cammino senza dare direzione ai suoi passi, guidata come un automa solo dai ricordi di quello che fu. Sulla destra supera a passo svelto il grande pozzo e poco più avanti, lungo i rivale del fossato, svolta a sinistra.
Di lì a cento metri l’alto ciliegio si erge sopra le viti aggrovigliate, a sé ha ancora appoggiata la lunga scala.
Da bambina la sola idea di salirla la terrorizzava. Sua nonna era solita andare fino in cima a passo svelto, col cesto pesante appeso al braccio, solo per il piacere di vedere aprire un sorriso alla piccola che stava là sotto ad attenderla, con la gioia del pregustare i rossi frutti, misto alla preoccupazione dell’altezza.
La verde chioma dell’albero le sembra, per un attimo, possa donare all’immobilità dei suoi mondi, i colori mancanti.

Avvicinandosi alla secolare pianta, rallenta il suo andamento. Sfiora il tronco girandoci attorno, fino a notare una figura seduta con la schiena appoggiata all’albero. Ettore tiene un libro posato sulle ginocchia e sentendola arrivare, alza i suoi grandi e vividi occhi neri, come fosse naturale il solo fatto di aspettarla.

Anna non sapeva chi lui fosse. Era la prima volta che lo vedeva in vita sua.


Anna non poteva ancora sapere che di lì a poco avrebbe stretto una delle sue mani e con l’altra un pugno di conchiglie. In una lunga passeggiata in riva al mare, le parole si sarebbero srotolate come gomitoli di impressioni. I progetti che prendevano forma, i sogni che acquistavano materia. Racconti di una storia percorsa sulla stessa strada, col solo canto dei gabbiani a farli decollare.
Non poteva ancora immaginare quante risate avrebbero fatto insieme, inventandosi le storie più improbabili, osservando il mondo che passava sotto la finestra nella grande piazza congestionata di vita. I sorrisi, l’intesa, lo scherzarsi per gioco e il giocare per scherzo.
Ancora ignorava di quel giorno in cui si sarebbero incontrati alla stazione di Milano, il treno in ritardo ed un caffè per due alla banchina. La sensazione indelebile che per una volta partire, andare, lasciare non fosse uno sradicarsi, ma anche solo un leggero sospiro, un’attesa dell’incontro successivo.
Non si erano ancora urlati addosso, con il nodo in gola, la rabbia, la delusione, fino a sbattere la porta e pedalare via veloce in bicicletta. Per andare dove? Altrove. Col viso rigato di lacrime, in cerca di una comprensione che solo il tempo avrebbe saputo costruire.
Ancora Ettore non le aveva fatto scoprire che la grigia città, la Milano in cui era approdata, animata da rumorosi clacson, maleodoranti tubi di scappamento, poteva al contempo nascondere poco lontano anche i suoi campi, quelli che amava, quelli del sabato mattina. Ed in quel sabato mattina, lui la guardava passeggiare ed accarezzare il granturco che cresceva. Con gli occhi vivi la seguiva, quegli occhi che la facevano sentire bella, che la spingevano a camminare, osservata, desiderata ed ora diversa.
Trascurava la possibilità che di nuovo, inaspettatamente si potesse costruire una casa per due, oramai che credeva non fosse più di questi tempi post moderni. Dove anche una sola panchina poteva diventare quella casa, per il solo esserci lui lì ad attenderla.
Non aveva ancora vissuto tutte queste storie, di quelle che ti porti dentro, nel baule dei ricordi.

Ma lì, con quel semplice sguardo, tra Ettore e Anna tutto ciò stava solo per cominciare.
E, d’un tratto, il suo animo si placa, leggero e pieno, di tutti i vuoti da colmare.
Dischiude le sue labbra carminie e socchiude i suoi grandi e malinconici occhi.

Riaprendoli, fuori dalla finestra, un’altra giornata di sole animava la rumorosa piazza.
Avvolta nel fiorato piumone ad aspettarla
un altro ballo da sola.


venerdì

Lo specchio


Davanti allo specchio mi preparo
ad un altro incontro.
Mi pettino i capelli che non ci sono più
decido cosa non mettermi
ed indosso lenti a contatto,
per esser certa di vedere ciò che non sopporto.

Volevo leggerezza ed eccomi servita.
Nulla di più.

sabato

Emilio è un mal di testa.
Tentacolare si aggrappa alla fronte e dentro stringe il dolore.
E' un parassita.

Senza coraggio conduce la sua vita, o meglio da essa è travolto e dirottato come una banderuola al vento.

Lo disprezzo. Ne sono delusa. Rammaricata.
Forse i miei occhi hanno voluto vedere per tempo
- troppo tempo -
un sole che in realtà non c'era.

Non sarò paziente, non sarò comprensiva.
La codardia non può essere accettata.

Ed oggi, mi resta solo un fastidioso mal di testa.




venerdì

Un disegno

Le matite colorate riempiono la nuda pagina bianca. La cromia del disegno percorre le stagioni, così come i suoi protagonisti, che dagli abiti della verde primavera sono ora giunti al grigio inverno.

un disegno
che
sarebbe potuto essere di tanti colori
- se la storia fosse fatta di se
- se le cose andassero come le si pensa ed ipotizza.

Ed invece la coerenza deve vincere sull'altalena della volontà.

Per i prossimi disegni.

mercoledì

La nebbia è romantica, a Milano.

hOPALEsemente voglia di te.
Anche se è inverno, anche se è freddo, anche se in casa si sta bene, attraverserei la nebbia in bicicletta e arriverei ai tuoi lidi. Lo farei per guardarti nei tuoi begli occhi di mare e baciarti. E poi scappare, guardandoti che mi guardi con la voglia di me. Ma senza le tue allusioni, il tuo frenare, puntualizzare quel che non può essere. Che mi fa capire che ancora una volta sono lì. A quell'appuntamento. Ho solo voglia di sentire il caldo d'inverno e non pensare alla contingenza del poter essere altrimenti, che non può! Non ho bisogno di altro. Se non delle tue labbra, dei tuoi occhi che guardandomi, mi fanno sentire tanto, ma tanto bella.

La nebbia è romantica, stasera a Milano.
E io farnetico.