Fumatto |
Una
lanterna sul comodino ad illuminare i mondi immaginari che, avvolta nel fiorato
piumone, avrebbe attraversato.
Nella
nebbia dell’incoscienza, una lontana fisarmonica la richiamava a sé.
Da
lì, si aprì un chiarore.
Rituali
passi nell’aia che fu di tanti ricordi di bambina, in quella terra che altro
non è che casa. Anna, oramai una donna, gracile figura con pelle di porcellana
e lunghi capelli che le scendono fino a coprire i timidi seni, in lei l’orma di
quella terra, un’origine, fatta di odori, rituali, parole che continuano a
segnarla.
Gira
l’angolo della grande casa padronale, per quel viottolo che dietro si spinge
fino ai peschi del contadino contiguo. La strada è terra sconnessa, non
lavorata, solcata dal passaggio di un trattore che oramai da due anni ha smesso
di lavorare.
Le
strade di campagna sono così. Si lasciano percorrere silenziose, custodi dei
pensieri. Il tempo scorre, lento e inconsapevole, la natura cambia, col passare
delle stagioni.
Prosegue
il suo cammino senza dare direzione ai suoi passi, guidata come un automa solo
dai ricordi di quello che fu. Sulla destra supera a passo svelto il grande
pozzo e poco più avanti, lungo i rivale del fossato, svolta a sinistra.
Di
lì a cento metri l’alto ciliegio si erge sopra le viti aggrovigliate, a sé ha
ancora appoggiata la lunga scala.
Da
bambina la sola idea di salirla la terrorizzava. Sua nonna era solita andare
fino in cima a passo svelto, col cesto pesante appeso al braccio, solo per il
piacere di vedere aprire un sorriso alla piccola che stava là sotto ad
attenderla, con la gioia del pregustare i rossi frutti, misto alla
preoccupazione dell’altezza.
La
verde chioma dell’albero le sembra, per un attimo, possa donare all’immobilità
dei suoi mondi, i colori mancanti.
Avvicinandosi
alla secolare pianta, rallenta il suo andamento. Sfiora il tronco girandoci
attorno, fino a notare una figura seduta con la schiena appoggiata all’albero.
Ettore tiene un libro posato sulle ginocchia e sentendola arrivare, alza i suoi
grandi e vividi occhi neri, come fosse naturale il solo fatto di aspettarla.
Anna
non sapeva chi lui fosse. Era la prima volta che lo vedeva in vita sua.
Anna
non poteva ancora sapere che di lì a poco avrebbe stretto una delle sue mani e
con l’altra un pugno di conchiglie. In una lunga passeggiata in riva al mare,
le parole si sarebbero srotolate come gomitoli di impressioni. I progetti che
prendevano forma, i sogni che acquistavano materia. Racconti di una storia
percorsa sulla stessa strada, col solo canto dei gabbiani a farli decollare.
Non
poteva ancora immaginare quante risate avrebbero fatto insieme, inventandosi le
storie più improbabili, osservando il mondo che passava sotto la finestra nella
grande piazza congestionata di vita. I sorrisi, l’intesa, lo scherzarsi per
gioco e il giocare per scherzo.
Ancora
ignorava di quel giorno in cui si sarebbero incontrati alla stazione di Milano,
il treno in ritardo ed un caffè per due alla banchina. La sensazione indelebile
che per una volta partire, andare, lasciare non fosse uno sradicarsi, ma anche
solo un leggero sospiro, un’attesa dell’incontro successivo.
Non
si erano ancora urlati addosso, con il nodo in gola, la rabbia, la delusione,
fino a sbattere la porta e pedalare via veloce in bicicletta. Per andare dove?
Altrove. Col viso rigato di lacrime, in cerca di una comprensione che solo il
tempo avrebbe saputo costruire.
Ancora
Ettore non le aveva fatto scoprire che la grigia città, la Milano in cui era
approdata, animata da rumorosi clacson, maleodoranti tubi di scappamento,
poteva al contempo nascondere poco lontano anche i suoi campi, quelli che
amava, quelli del sabato mattina. Ed in quel sabato mattina, lui la guardava
passeggiare ed accarezzare il granturco che cresceva. Con gli occhi vivi la
seguiva, quegli occhi che la facevano sentire bella, che la spingevano a
camminare, osservata, desiderata ed ora diversa.
Trascurava
la possibilità che di nuovo, inaspettatamente si potesse costruire una casa per
due, oramai che credeva non fosse più di questi tempi post moderni. Dove anche
una sola panchina poteva diventare quella casa, per il solo esserci lui lì ad
attenderla.
Non
aveva ancora vissuto tutte queste storie, di quelle che ti porti dentro, nel
baule dei ricordi.
Ma
lì, con quel semplice sguardo, tra Ettore e Anna tutto ciò stava solo per
cominciare.
E,
d’un tratto, il suo animo si placa, leggero e pieno, di tutti i vuoti da
colmare.
Dischiude
le sue labbra carminie e socchiude i suoi grandi e malinconici occhi.
Riaprendoli,
fuori dalla finestra, un’altra giornata di sole animava la rumorosa piazza.
Avvolta
nel fiorato piumone ad aspettarla
un
altro ballo da sola.
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